Quale è il costo della precarietà lavorativa per il nostro benessere psicologico?

Sul numero di Aprile del periodico AltraCittà, è stato pubblicato un mio articolo che discute alcuni aspetti sia psicologici che sociali connessi alla precarietà lavorativa. In particolare è stato approfondito come il disagio attuale, così come il continuo stato di incertezza per il futuro, possono incidere significativamente sul nostro benessere psicofisico.

Nei primi giorni di Aprile l’Istituto Nazionale di Statistica ha pubblicato i dati relativi alla occupazione lavorativa nel nostro paese. E sono del tutto impietosi. A Febbraio di quest’anno il tasso di disoccupazione si è attestato al 9,3%, il più alto registrato dal lontano Gennaio 2004. Il numero dei disoccupati durante l’ultimo anno è aumentato del 16,6%, corrispondente a 335mila posti di lavoro persi. Se guardiamo alla fascia di età fino ai 24 anni la situazione appare ancora più preoccupante. Il tasso di disoccupazione fra i giovanissimi è arrivato al 31,9%.

Queste informazioni sono ormai di dominio pubblico, come tutte le questioni legate alla recessione economica globale ed in particolare italiana. Un dato particolarmente interessante è la diminuzione del numero di persone che svolgono un lavoro a tempo pieno, rispetto a quelle che hanno un lavoro a tempo parziale. Fra tutti i nuovi occupati del 2011, più della metà (53,3%) stanno svolgendo un lavoro part-time involontario, cioè un lavoro accettato in mancanza di una occasione di occupazione a tempo pieno.

La retorica imperante della flessibilità del lavoro, così come della necessità imprescindibile di adeguarsi ad un mercato in continuo mutamento, ha creato una moltitudine di contratti atipici che prevedono il taglio di ogni forma di garanzia e stabilità per il lavoratore. E le prospettive per il futuro sono in peggioramento vista la nota e recente riforma dell’Articolo 18.

Va da sé che in questa situazione il lavoratore è esposto ad una notevole dose di frustrazione legata a molteplici fattori fra cui: il mancato riconoscimento dei propri meriti e delle proprie competenze, una disillusione rispetto alle proprie aspettative remunerative, un crescente sentimento di precarietà che incide negativamente sulla propria identità e sulla possibilità di progettare un futuro.

Questa esposizione prolungata allo stress ha un’incidenza molto rilevante sul benessere psicofisico dell’individuo, come testimoniato dai numerosi studi effettuati nel campo della psicologia clinica, della psicologia del lavoro e della medicina del lavoro. I sintomi da lavoro stress-correlato più frequentemente riportati vanno dal semplice senso di oppressione all’ansia, fino al vero e proprio attacco di panico. Possono essere presenti inoltre iperattività, irrequietezza ed irritabilità, sintomi depressivi, stanchezza cronica, debolezza e inappetenza. Spesso il disagio viene somatizzato per esempio con problematiche gastrointestinali, aumento della pressione sanguigna, irregolarità del ritmo cardiaco, crampi agli arti e patologie muscolo-scheletriche. Lo stress lavorativo può inoltre contribuire a determinare l’instaurarsi di stili di vita non salutari, come eccessiva sedentarietà, abuso di cibi ipercalorici, alcool e fumo.

Il lavoratore sottoposto ad alti livelli di stress è anche più a rischio di incidenti ed infortuni anche gravi. A tal proposito l’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute su Lavoro (Osha), ha rilevato tra i lavoratori interinali un maggior rischio di infortuni sul lavoro rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato. La medesima Agenzia sottolinea come in generale i lavoratori temporanei e a tempo parziale hanno una maggiore incertezza lavorativa, minor controllo sul proprio periodo di lavoro, meno prospettive di carriera, ridotto accesso alla formazione e svolgono compiti meno qualificati. Tutto ciò costituisce una ulteriore fonte di stress da lavoro. La stessa carenza di formazione inoltre aumenterebbe il rischio di infortuni.

Date queste premesse, appaiono molto interessanti i risultati emersi da un recente studio della Australian National University di Canberra e pubblicato sulla rivista “Occupational and Environmental Medicine”. Sembra infatti che questo sondaggio, effettuato su un campione di 7000 persone, abbia rilevato che la salute mentale di chi è disoccupato, sia migliore di quella di chi ha un lavoro precario. I ricercatori utilizzando una apposita scala psicometrica, hanno constatato come per un disoccupato trovare un lavoro stabile comporti un guadagno di tre punti, mentre trovare un lavoro precario comporti un peggioramento di 5,6 punti sulla medesima scala. Evidentemente per il benessere psicologico non è valida l’equazione che qualunque lavoro è meglio di niente.

Chiaramente il lavoratore a causa delle condizioni di necessità oggettiva sarà sempre spinto ad accettare un impiego, spesso a qualsiasi condizione. Dovrebbe essere il legislatore a predisporre le condizioni minime per far sì che il lavoro sia sicuro e dignitoso. Ma questa è un’altra storia.

Dott. Moretti Giuseppe - Psicologo Clinico

Sono uno Psicologo Clinico e di Comunità e Specialista in Psicologia della Salute. Albano Laziale (Castelli Romani) e Roma - Tel: 392.2524764